Si chiama Anna, ma è una dottoressa.

Si chiama Anna, ma è una dottoressa.

“Si chiama Anna. Le hanno affidato il compito di costruire il più potente computer quantico mai concepito che stravolgerà le capacità di elaborazione finora conquistate.”

Questo è il testo utilizzato sulle pagine Facebook e Twitter del Corriere della Sera per condividere l’articolo dedicato alla Dottoressa Anna Grassellino, direttrice del nuovo centro al Fermilab di Chicago.  Nell’articolo sono presenti nome e cognome della dottoressa, lo stesso però non si può dire del titolo. 

Il Fermilab è un centro di ricerca dedicato allo studio della fisica delle particelle elementari. La dott.ssa Grassellino è a capo del nuovo centro di ricerca Superconducting Quantum Material and Systems Center, scelto dalla Casa Bianca per realizzare il nuovo computer quantico. Questo risultato arrivato a soli 39 anni non stupisce, la sua carriera è costellata di risultati incredibili e onorificenze tra cui il Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel 2017. Scrivere come prima cosa “Si chiama Anna” può essere estremamente riduttivo.

Riferirsi a una professionista solo attraverso il nome proprio è un meccanismo maschilista utilizzato per minare l’autorevolezza del ruolo ricoperto. Il nome proprio accorcia le distanze e crea subito una certa confidenza con il soggetto. Leggendo “Anna” vi immaginate una scienziata che progetta computer quantistici? 

L’utilizzo esclusivo del nome proprio non è necessariamente scorretto. Se per esempio la testata avesse fatto la scelta stilistica di utilizzare un tono sempre estremamente informale, riferendosi a tutti i protagonisti degli articoli solo attraverso il nome la cosa sarebbe diversa. Non è però questo il caso, perché scorrendo ancora poco la pagina si incontrano nomi maschili con cognome e titolo professionale accanto. 

Prestare attenzione alle parole che utilizziamo è fondamentale, ancora più importante se con le parole si lavora. Ne avevo già parlato a febbraio in questo articolo a seguito di un caso simile. 

Questa volta vorrei però parlare delle reazioni che questo post ha scatenato. Mentre scrivo (28 agosto ndr), sotto il post Facebook del Corriere ci sono più di 200 commenti. La maggior parte di essi fa riferimento allo scivolone sessista del giornale, facendo notare l’assurdità di utilizzare il nome proprio per una notizia del genere. Questi commenti mi danno una grande speranza, vuol dire che sta diventando sempre più difficile ignorare il quotidiano maschilismo che ci circonda, le cose possono cambiare davvero, forse ci vorrà ancora molto tempo e fatica, ma ci riusciremo. 

Non credo nelle critiche fini a loro stesse, penso che sbagliare sia la cosa più umana che esista. La parità si costruisce un pezzetto alla volta, incappando in questi errori e cercando attivamente di risolverli. Ma, non mi stancherò mai di dirlo, giornalisti e comunicatori in genere hanno una enorme responsabilità che deriva dal potere delle parole, capace di creare o alimentare luoghi comuni, così come di sbriciolarli. 

Davanti a situazioni come questa si hanno davanti due strade: si può ignorare la cosa, seppellirla sotto altre decine di post sperando che tutti se ne dimentichino in fretta; oppure si può vedere questo sbaglio come l’opportunità che è, chiedere scusa, rimediare e farne tesoro per i prossimi post e articoli. 

Qualche settimana fa “La Stampa” ha pubblicato un pezzo del critico musicale Giangiorgio Satragni sulla direttrice d’orchestra Joana Mallwitz. La lode utilizzata dal musicologo è stata “Brava come un uomo”. La maschilità non è un parametro di bravura in nessuna disciplina che conosco e, anche se non sono esperta di musica, non credo di sbagliare se dico che anche in quest’ambito è così. Non contento, il critico per lodare Joana Mallwitz ha precisato che le altre direttrici d’orchestra non sono così brave e che sono solo utilizzate come strumento di marketing. 

Questo è un altro tipico meccanismo maschilista del patriarcato, in cui per lodare una donna le si attribuisce la qualità di “uomo”, screditando le altre professioniste nel settore così da sottolineare che il caso in particolare è una semplice eccezione, perché di norma l’essere donna ti rende incapace di dirigere un’orchestra. 

La svolta positiva di questa vicenda però è che qualche giorno dopo “La Stampa”, capito l’errore, ha lasciato spazio sulle stesse pagine del giornale a un articolo dell’autrice e attivista Michela Murgia che critica e condanna il pezzo precedente. 

Tendiamo a dimenticare il peso delle parole. Nella nostra esperienza come utenti sui social ci capita di incontrare centinaia di contenuti in un solo giorno, può succedere quindi di non dare la giusta importanza a ogni parola che leggiamo. Come produttori di contenuti però questo non dovrebbe accadere, soprattutto se si è professionisti della comunicazione, è nostra responsabilità creare informazione e abbattere stereotipi. Siamo però umani, può succedere di sbagliare, l’importante è affrontarne le conseguenze e cercare di rimediare. Il mio consiglio in questi casi è ascoltare le critiche attentamente, chiedere scusa e imparare la lezione per il futuro.

di
Sara Leano
Content editor

Sono Sara e il mio tempo lo passo più che altro nel regno della fantasia. Amo la pizza, i musical e le parole. Ho una mensola di libri in equilibrio precario che aspettano di essere letti e una lista infinita di serie tv che aspettano di essere guardate. Quando devo tornare alla realtà il mio mondo lo indosso sulle t-shirt.

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