Di pinkwashing e di brand sempre più rosa

Di pinkwashing e di brand sempre più rosa

Essere sensibili a temi sociali cari ai consumatori – soprattutto i giovani della generazione Z – è diventato indispensabile. Tutto fa marketing: sostenibilità ambientale, diritti civili e parità di genere sono temi che stuzzicano l’engagement. Per vendere un brand deve piacere. A catturare l’attenzione devono essere i suoi prodotti, ma anche i valori e il modo in cui agisce e si relaziona col mondo esterno.

Tra le cause più attuali c’è la parità di genere, per cui molte aziende si sono schierate contro sessismo e mercificazione del corpo femminile. Ma quante alle parole degli spot aggiungono fatti concreti?

La sensibilità sociale che vende

Si parla di pinkwashing per denunciare i casi in cui le aziende utilizzano tematiche come i diritti delle donne per puri scopi di marketing. La parola pinkwashing deriva dalla crasi di pink , “rosa” e “whitewashing,” imbiancare o nascondere”. Il concetto di pinkwashing è nato sulla scia del greenwashing, termine coniato nel 1986 per denunciare le aziende che usavano l’impatto ambientale solo come facciata e per ricevere consensi.

Usato per la prima volta agli inizi degli anni Duemila, il termine pinkwashing venne adattato per esprimere un concetto simile a quello del greenwashing. A farlo fu Barbara Brenner della Breast Cancer Association, che lo utilizzò per smascherare alcuni brand che sposavano la causa della prevenzione e della lotta contro il cancro al seno solo per indurre i consumatori a preferire i loro prodotti.

Brand e pinkwashing

Numerosi brand negli ultimi anni hanno deciso di cambiare la loro immagine per lanciare un messaggio di vicinanza alle battaglie del mondo femminile. Un esempio fra tutti è la trasformazione dello storico brand di intimo Victoria’s Secret. Famoso in tutto il mondo per le sue modelle bellissime e quasi irreali – non a caso chiamate Angels – nel 2021 Victoria’s Secret ha annunciato di voler rinunciare ai suoi Angeli per promuovere una femminilità diversa.

Al posto delle super top model sono state scelte come testimonial donne famose per i loro successi. A cambiare non sono state solo le testimonial, ma anche il consiglio di amministrazione, composto adesso quasi esclusivamente da donne.

I casi: KFC e Primark

Tra i casi più celebri di pinkwashing se ne ricordano due in particolare: quello del colosso del pollo fritto KFC e quello di Primark, famosa catena di abbigliamento low-coast.

Nel 2010 KFC strinse una partnership con Komen, importante associazione che si occupa di lotta contro il cancro al seno. La campagna, che vide i famosi secchielli di pollo tingersi di rosa, fu un successo e vennero raccolti 4 milioni di dollari da devolvere all’associazione. Alla fine però si scoprì che i soldi erano già stati devoluti dall’azienda prima della campagna e che l’iniziativa era stata solo un modo per ottenere visibilità e consensi.

Sia di pinkwashing che di rainbowashing è stato invece accusato Primark nel 2018. Per celebrare i Pride che si sarebbero tenuti in Europa, Primark lanciò una linea dedicata chiamata appunto Pride. L’obiettivo finale era di donare il ricavato finale all’associazione Stonewall.

A sollevare un polverone fu l’opinione pubblica, quando scoprì che la linea di capi era stata prodotta in Turchia e Myanmar, paesi in cui i diritti delle persone gay, lesbiche, trans non vengono rispettati.

I due casi esplorati non sono ovviamente gli unici ad essere esplosi negli ultimi anni. Il pinkwashing fa parte di tantissime campagne di brand più o meno famosi e come consumatori dobbiamo stare bene attenti a quello che ci viene sottoposto. E tu? Quale è l’episodio di pinkwashing che ti ha più colpito?

di
Lorena Peci

Ho ancora tanti libri da leggere e tanti luoghi da visitare. Introversa e sognatrice, scrivo per passione e per lavoro. Il primo libro che ho letto si chiamava Vita da cani con tre gatti e da allora la mia vita ha preso una buona strada: amo i libri, i cani e i gatti.

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