Story Design la sfida per un mondo migliore.

Story Design

la sfida per un mondo migliore.

Photo by Brett Jordan on Unsplash

Siamo di fronte ad una emergenza – sociale, economica e ambientale – e non dovrebbe più essere un mistero per nessuno: non lo è certamente per la scienza, non lo è per buona parte dei media, non lo è per buona parte della politica, non lo è per buona parte dei cittadini del mondo.
Il tema è “abbastanza compreso”, ma evidentemente non è compreso abbastanza. E solo “abbastanza” parte del mondo ha adottato comportamenti “abbastanza sostenibili” e ne fanno divulgazione.

Perché? Come siamo arrivati a questa situazione di stallo?

L’umanità – che ha inventato l’economia circa 10.000 anni fa compiendo la prima rivoluzione agricola, la quale ampliò enormemente la disponibilità di cibo, liberando tante persone di quel tempo che hanno poi trasformato scienza, tecnologia e socializzazione – ha raggiunto il primato assoluto sul pianeta grazie alla prima rivoluzione industriale, che di anni ne ha poco più di 200.
Ma nel momento in cui l’umanità ha compreso che questo primato è insostenibile da mantenere, il pensiero si è diviso, radicalmente, tra chi predica l’arresto della crescita (industriale) e chi nega ci sia qualunque tipo di emergenza. Probabilmente la ragione, come spesso accade, sta in un punto mediano tra questi estremi. È urgente capire dove esattamente.

Nella società dei consumi attuale, introdurre il termine “sostenibilità” suona ancora come un concetto estraneo, che riguarda logiche distanti dal vivere quotidiano e difficilmente governabile. L’emergenza climatica è un fenomeno globale tuttavia poco esplorato dalle coscienze, visto come qualcosa di inafferrabile e di cui non si ha una percezione lucida. Lontano nel tempo e nello spazio. Così la crescita dell’economia è demandata all’attività dei consumatori:

l’unico ciclo economico funzionante al momento, per così dire, è quello del “compralo, goditelo, buttalo via”: nel tempo frammentato della società dei consumatori la durata non è più un valore, un oggetto del desiderio, perché tutto si gioca sul qui e ora.

Gli individui si riuniscono in “sciami” che si costituiscono a seconda dell’occasione, spinti da cause effimere e obiettivi mutevoli. Essere inseriti in uno sciame dà conforto sulla base della fede nei numeri: si pensa che una direzione sia giusta perché la maggioranza la segue. Il problema è che i gruppi così costituiti tendono verso la disgregazione sociale perché il consumo, anche se traghettato dallo sciame, è un’attività solitaria che non porta alla formazione di legami durevoli bensì occasionali, spesso competitivi e conflittuali.

Questo ci dice quanto sia necessario riformulare le logiche della comunicazione, affinché si possa parlare di sostenibilità in senso trasformativo, non come un assunto di cui prendere atto, ma come un fenomeno che chiama tutti a raccolta per sostenere un cambiamento nell’agire economico, sia sociale che individuale.
Bisogna recuperare l’idea di durata – i tempi lunghi della Natura – e i concetti di salvezza e redenzione, per comprendere che ogni piccola azione ha un risvolto futuro, mentre l’economia dello spreco deve essere necessariamente abbandonata se si vuole garantire un futuro al pianeta, esseri umani compresi.

Alle aziende è dato un ruolo trainante nei confronti dell’agire sostenibile, ma il modo con cui si avvicinano ai problemi ambientali e alle cause sociali necessita di attenzione perché alto è il rischio di cadere nella pratica del greenwashing.

Di fronte alla domanda di brand e prodotti sostenibili, molti hanno fatto fronte al fenomeno proponendo strategie volte a mutare la propria immagine rendendola ingannevolmente green. Altri hanno appoggiato associazioni benefiche, o reso noti alcuni dei propri traguardi sostenibili, nascondendo però i reali impatti ambientali. Tutto questo se da un lato ha contribuito a far luce sul tema, alimentandone i discorsi, ha distolto l’attenzione dal modo in cui andrebbe affrontato realmente.

Nello scenario attuale, le aziende devono chiedersi da quale scopo sono guidate e in che direzione intendono muoversi. Essere sostenibili diventa una scelta necessaria per sopravvivere nel mercato, ma non è questo il punto. La sostenibilità è un driver sociale di unione, speranza, cambiamento. Per fare davvero la differenza i brand devono darsi un sistema valoriale che possa essere condiviso dal loro pubblico: entrambi sono coinvolti in un destino comune a cui nessuno può sottrarsi.
Fare una scelta, darsi uno scopo sostenibile implica una ridefinizione interna ai brand che solo successivamente potrà essere comunicata all’esterno. Comunicare un progetto di sviluppo sostenibile richiede non solo la capacità di saper informare, ma soprattutto di saper emozionare e coinvolgere. Lo strumento più naturale per rivolgersi al pubblico è il racconto. Racconti di imprese, sfide, successi, ma anche fallimenti. Comunicare secondo i principi di trasparenza e rilevanza è uno dei tanti modi per avvicinare brand e persone alla sostenibilità.

L’ambientalismo ha le sue radici nel senso del limite, inteso come bordo da non oltrepassare. Oltre di esso c’è il baratro, la catastrofe. Ma questa narrazione catastrofista, ancora dominante, sembra ignorare che è nella natura dell’uomo spaventarsi di fronte al baratro e contemporaneamente lasciarsi sedurre dal rischio, perché “la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare” che vale, in negativo, come eccesso di fiducia nelle capacità dell’uomo e ci dà una definizione di tracotanza.

Per gli antichi greci la tracotanza era l’hybris che ci fa presumere di essere specie dominante e sovvertitore dell’ordine delle cose. Per un futuro più umano e più sostenibile serve invece l’umiltà e la capacità di individuare percorsi sicuri, rassicuranti e per questo desiderabili, che ci allontanano dal baratro e da esiti pericolosi. Popolari nel senso nobile del termine, semplici ma non semplicistici, facili da comprendere, personali, gratificanti ed eccitanti. Che non impone la rinuncia come unica forma di rispetto, ma propone la scoperta di qualcosa di nuovo.

La comunicazione della sostenibilità si è sempre aggrappata all’idea di meno, indicando il disastro imminente come punto di arrivo, senza scampo e creando così resistenza all’apprendimento delle persone. E così, la scarsa consapevolezza del rischio non è stata sufficiente per contrastare l’irresistibile attrazione per esso. Perché tutto è sempre stato tenuto, da chi non aveva motivo di accelerare, su una linea temporale lunga e lunghissima che ci ha reso rane bollite.

È esattamente questo che è successo con i cambiamenti climatici: nascono con la rivoluzione industriale che ha reso gli stili di vita e di consumo, che erano freddi come l’acqua della pentola, prima tiepidi e assai più gradevoli – grazie a un più diffuso benessere relativo – poi caldi, ma ancora sopportabili – come la rincorsa alla crescita a prescindere – infine bollenti – come l’attuale crisi ambientale, sociale ed economica. Il problema è che le possibili soluzioni per uscire dalla pentola sono state presentate su un arco temporale assai lungo, togliendo credibilità al senso di urgenza che avrebbe scottato più persone e più organizzazioni spingendole a cercare velocemente cambiamenti significativi.

E non possono definirsi cambiamenti significati e positivi tutte le narrazioni basate sulla decrescita felice, per il semplice fatto che è nella natura dell’uomo progredire, generando nuove idee e nuovo senso. Quell’aggettivo “felice” non è mai stato in grado di suscitare entusiasmi tali da sovrastare e risolvere i timori generati da quel sostantivo “decrescita”. Forse andava da subito ridefinito il concetto di crescita e con esso il suo significato? L’Economia Circolare propone esattamente questo: una crescita garantita nel tempo – per le generazioni future – avviata da una riduzione nell’utilizzo delle materie prime (efficienza) e poi sostenuta dal recupero, il riuso e il riciclo (efficacia).

È un modello economico in cui il contrario di meno non è più, ma meglio: non abbiamo bisogno di fare/consumare di più per crescere, ma di fare/consumare cose migliori. Sostenibilità quindi non vuol dire solo fare meno danni all’ambiente, ma fare meglio per l’umanità. È benessere incrementale e collettivo, è crescita sexy, simple and personal.

La resilienza è efficiente, ma l’innovazione è antifragile perché efficace, quindi non basta più pensare out of the box ma occorre ripensarla quella scatola. Ridurre le bottiglie di plastica e riciclarle è efficiente, sostituirle con bottiglie in vetro a rendere per riutilizzarle è efficace. L’efficacia non è però la sola variabile della narrazione che ancora deve essere scritta in buona parte. Abbiamo anche la variabile tempo e la percezione che abbiamo costruito di esso.

Con il consumismo siamo cresciuti con la logica del “qui e ora”, perdendo di vista i tempi lunghi della Natura – i tempi della rigenerazione delle risorse di cui non possiamo fare a meno. Ciò che accadrà nel lungo periodo sembra non riguardare più nessuno… o, peggio, è solo un problema delle generazioni che verranno. Troppo spesso si sono fissati obiettivi distanti nel tempo (2030 – 2050), senza prima rieducare le persone ai tempi lunghi della Natura che danno un senso a quelle linee temporali. Così, sono rimaste date lontane e poco significative che hanno reso per nulla doloroso procrastinare all’infinito, senza fretta. Se le persone vivono i tempi brevi del “qui e ora”, occorre dare visioni di un futuro già presente, già qui, a portata di mano.

Abbiamo perso il senso dell’urgenza, lasciando che diventasse emergenza: un’urgenza condivisa ci avrebbe dato il tempo di intervenire riducendo i rischi, aver permesso che diventasse emergenza ci espone tutti ad un pericolo imminente. È il momento di agire ora comunicare ora, magari facendo cose in modo imperfetto ma se è vero che done is better than perfect, facciamolo e basta, trasformando la cultura del “qui e ora” da minaccia a opportunità. Consapevoli che, non senza cinismo e con rapidità, si deve saper cogliere l’opportunità che – seppur solo abbastanza in linea con i valori che vogliamo condividere – garantisce non il miglior risultato in assoluto, ma la più facile accettazione da parte delle persone. La nuova normalità serve qui e ora: sexy, simple and personal.

Scelgo il done se questo si diffonde più velocemente del better. Non servono poche migliaia di persone che fanno la differenziata alla perfezione, ne servono milioni che, seppur imperfetta, la fanno tutti i giorni, ma la fanno!

L’urgenza è la vera sfida per le aziende, che debbono ingegnarsi per diventare efficaci rapidamente e non efficienti poco alla volta. A questo serve il design. Progettiamo un mondo che, a sua volta, ci progetterà. Tutto ciò che creiamo per soddisfare i nostri bisogni ha un impatto in un modo o nell’altro; in che misura dipende dalle intenzioni e dalle scelte fatte dal designer, fin dall’inizio della vita di un prodotto. E del design fa parte la comunicazione, che di quel prodotto definisci la destinazione, lo scopo e l’utilità. In altre parole l’identità.

Solo così ci saranno le condizioni per una narrazione entusiasmante proprio perché strategica.

di
Alessio Alberini
Sustainability Management, Story Design Strategist

Condividi questo articolo!